Con la L. 119 del 30 giugno 2016, è stato introdotto il pegno mobiliare non possessorio con il duplice scopo di agevolare il finanziamento alle imprese e le garanzie sui crediti.
Il passaggio chiave di questa novità è l’effetto “revolving”, ovverosia il trasferimento del pegno dalla materia prima al prodotto finito, sino al ricavato della vendita.
Questa è forse la caratteristica più interessante dell’istituto. Infatti, i beni mobili oggetto del pegno possono essere sia quelli esistenti che futuri, determinati o determinabili e, ove non sia diversamente disposto nel contratto, il debitore o il terzo concedente il pegno è autorizzato a trasformare o alienare, nel rispetto della loro destinazione economica, o comunque a disporre dei beni gravati da pegno. In tal caso il pegno si trasferisce, rispettivamente, al prodotto risultante dalla trasformazione, al corrispettivo della cessione del bene gravato o al bene sostitutivo acquistato con tale corrispettivo, senza che ciò comporti costituzione di una nuova garanzia.
Ma come funziona? Cosa garantisce? Quali problemi? Quali i vantaggi?
Il nuovo istituto prevede, a beneficio degli imprenditori iscritti nel registro delle imprese e a garanzia delle transazioni commerciali, la possibilità di concedere (o richiedere) in pegno i beni inerenti all’esercizio dell’impresa (beni o cespiti), mantenendone però la disponibilità in capo al concedente.
Gli scambi commerciali dovrebbero così risultare più sicuri (e rassicuranti) e, soprattutto, le procedure esecutive residuali.
Ora dunque, il contratto di fornitura può essere accompagnato da un contratto di pegno sulla stessa merce venduta, assegnando al fornitore una forma di garanzia concreta, tangibile e di facile fruibilità: per l’eventuale recupero del credito non servirà più munirsi del titolo esecutivo, ma semplicemente esercitare il diritto di pegno.
Infatti, in caso di inadempimento del debitore, il creditore pignoratizio potrà rivolgersi direttamente all’ufficiale giudiziario (senza subire i costi e le lungaggini di una procedura giudiziaria per l’accertamento del credito e per il suo recupero forzoso) e richiedere la consegna del bene, individuando il bene o il prodotto ricavato dall’assemblaggio del materiale oggetto di pegno, o l’assegnazione del corrispettivo realizzato dalla vendita del medesimo.
A pena di nullità, il contratto di pegno deve essere previsto in forma scritta all’atto della stipula del contratto di fornitura di merce e deve essere reso noto a terzi, mediante l’iscrizione del nuovo registro dei pegni non possessori, tenuto presso l’Agenzia delle Entrate.
Antenato simpatico del contratto di pegno senza spossessamento presente nel nostro ordinamento è il c.d. caso del pegno sui prosciutti, grazie al quale l’imprenditore mantiene la disponibilità delle cosce fresche di maiale, con la possibilità per il creditore pignoratizio di poter apporre, in qualunque fase della lavorazione, un contrassegno indelebile (in modo da rendere conoscibile ai terzi la garanzia), ferma restando l’annotazione del vincolo su appositi registri, vidimati annualmente.
Proprio questo esempio consente di sollevare alcuni spunti di riflessione: mentre sui prosciutti era immediato rilevare l’esistenza della garanzia sul bene, più difficile sarà ottenere lo stesso risultato su merce presente in numero maggiore sul mercato (si pensi ad uno stock di penne); inoltre, in caso di vendita “all’ingrosso” di beni pignorati, sarà più complesso verificarne la vendita e pretendere l’adempimento. Sarà quindi più funzionale assegnare il pegno ad un bene “finito” o ad un bene strumentale per l’impresa?
Sperimentare direi che è la miglior forma di educazione del debitore impenitente.