È davvero possibile liberarsi dai vincoli economici che derivano dal divorzio? E in quanto tempo? E serve sempre un giudice?
I) Sono ormai ben note le novità apportate per prassi e per legge nella disciplina del divorzio. Ripercorriamole insieme, cogliendo spunto dalla spesso citata sentenza (n. 6855/2015), con cui la Corte di Cassazione afferma che la formazione di una nuova famiglia di fatto da parte del coniuge divorziato determinerebbe la perdita definitiva dell’assegno divorzile.
Opportune risultano alcune precisazioni.
Innanzitutto, al fine di determinare la perdita definitiva dell’assegno divorzile, la convivenza deve assumere i connotati di stabilità e continuità, costituendo un progetto ed un modello di vita analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio: potenziamento reciproco della personalità dei conviventi e trasmissione di valori educativi ai figli. Solo in presenza di tali requisiti la mera convivenza si trasforma in una vera e propria famiglia di fatto.
Per i giudici della Corte di Cassazione, è assai più coerente affermare che una famiglia di fatto, espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole da parte del coniuge, eventualmente potenziata dalla nascita di figli (ciò che dovrebbe escludere ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge), dovrebbe essere necessariamente caratterizzata dalla assunzione piena di un rischio, in relazione alle vicende successive della famiglia di fatto, mettendosi in conto la possibilità di una cessazione del rapporto tra conviventi (ferma restando evidentemente la permanenza di ogni obbligo verso i figli).
Va per di più considerata la condizione del coniuge, che si vorrebbe nuovamente obbligato e che, invece, di fronte alla costituzione di una famiglia di fatto tra il proprio coniuge e un altro partner, necessariamente stabile e duratura, confiderebbe, all’evidenza, nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Così dicendo, si supera definitivamente quel precedente granitico orientamento giurisprudenziale, secondo cui al sorgere di una nuova convivenza more uxorio vi sarebbe una sorta di quiescenza del diritto all’assegno divorzile, che potrebbe riproporsi, in caso di rottura della convivenza tra i familiari di fatto.
II) Ben più significativo in quanto davvero innovativo rispetto alla nota prassi in materia, è l’intervento operato dalla Legge n. 55 del 6 maggio 2015, in vigore dal 26 maggio 2015, il cui art. 1 riduce il termine minimo per proporre la domanda di divorzio in un anno dall’udienza presidenziale in caso di separazione giudiziale e in sei mesi, sempre decorrenti dall’udienza presidenziale, nel caso di separazione consensuale. Tale disciplina potrà essere applicata anche ai procedimenti nati come giudiziali, consensualizzati alla prima udienza presidenziale ed a quelli in corso alla data di entrata in vigore della nuova legge.
Inoltre, l’art. 2 anticipa il momento di scioglimento del regime di comunione legale dall’omologa della separazione alla prima udienza di comparizione dinanzi al Presidente, con conseguente annotazione dell’ordinanza presidenziale nei registri di stato civile per la debita informazione dei terzi. Da tale momento, quindi, ciascuno dei due coniugi rimarrà esclusivo proprietario dei beni che acquista.
III) Anche se meno recete, si ricorda che la Legge n. 162/14 ha introdotto una particolare procedura: la negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio.
Attraverso la convenzione di negoziazione assistita, i coniugi – assistiti ciascuno dal proprio legale – possono raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio (nei casi di cui all’art. 3, 1° comma, n. 2, lett. b) della l. n. 898/1970), nonché di modifica delle condizioni di separazione o divorzio precedentemente stabilite. E ciò senza dover più ricorrere al Tribunale (se si confermano di fatto le condizioni procedurali richieste a tal fine dalla Legge).
Una volta sottoscritta la convenzione di negoziazione, i legali della parte ha l’obbligo di trasmetterne copia autenticata munita delle relative certificazioni, entro 10 giorni, a pena di sanzione amministrativa pecuniaria, all’ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto per tutti gli adempimenti successivi necessari.