Qual è il ruolo del dirigente d’azienda nell’attuale scenario imprenditoriale, dove i modelli gerarchici tradizionali sono influenzati da una nuova gestione dei rapporti di lavoro e dell’attività aziendale?
I presupposti che portano a qualificare un lavoratore dipendente come “dirigente”:
- non includono solo una comprovata esperienza in analisi e gestione aziendale, in materia economica e commerciale;
- così come una forte attitudine alla leadership;
- ma anche la capacità di individuare efficaci strategie imprenditoriali e godere di un’ampia discrezionalità nel prendere le decisioni di indirizzo aziendale, senza vincoli di subordinazione.
Di fatto lo sviluppo di un diverso modello organizzativo d’impresa e lo svecchiamento dei processi aziendali, comporta un cambio di orientamento della figura dirigenziale, rispetto alla complessa struttura aziendale e all’esigenza di diversificare i ruoli.
La figura del dirigente d’azienda
L’orientamento giurisprudenziale intende valorizzare il ruolo del dirigente per cui, alla tipica figura “apicale” altamente gerarchica, considerata come «l’alter ego» dell’imprenditore con estesi poteri decisionali, si affiancano nuove “figure”.
Infatti, accanto al dirigente apicale, si collocano altre figure dirigenziali («mini-dirigente», «dirigente convenzionale», «dirigente preposto») che per competenza specifica svolgono in autonomia la loro attività professionale e decisionale – seppure di livello inferiore rispetto al dirigente apicale – a supporto dell’impresa.
Pertanto, è accettato che nell’azienda (soprattutto di medie e grandi dimensioni) possono convivere e cooperare più dirigenti, di diversi livelli e con differenti mansioni, per il raggiungimento dei medesimi obiettivi aziendali, purché sia garantita loro l’autonomia decisionale.
Il dirigente assume un ruolo centrale come figura strategica aziendale che, applicando le direttive stabilite dal datore di lavoro, organizza e gestisce l’attività imprenditoriale con un alto livello di professionalità e responsabilità e con indipendenti poteri decisionali.
Specialità del rapporto di lavoro dirigenziale
Da qui si individua il carattere di specialità della figura dirigenziale, inclusa tra i prestatori di lavoro subordinato, quali quadri, impiegati e operai (art.2095 c.c.), ma che, a differenza loro, si caratterizza per l’autonomia e professionalità con cui deve coordinare e gestire l’attività aziendale, in toto o di alcuni suoi rami o settori specifici (risorse umane, marketing, acquisti, etc.).
Attività che compie collaborando a stretto contatto con il datore di lavoro-imprenditore tramite un vincolo fiduciario, che di per sé rischia di essere leso in caso di inadempimenti, anche di natura disciplinare e di lieve entità, legati all’esercizio della prestazione lavorativa.
In funzione di questo vincolo tra dirigente e datore di lavoro, connesso ai criteri di correttezza e buona fede, si assume la peculiarità della disciplina legale e contrattuale applicabile, che trova ispirazione dal codice civile, dalla contrattazione collettiva e dalla giurisprudenza in materia.
Una disciplina speciale, che di fatto esclude il dirigente da molte tutele legali e garanzie, applicabili invece alle altre categorie di lavoratori subordinati, ma che comunque ha delle sue regole, soprattutto in riferimento a:
- criteri retributivi;
- disposizioni applicabili dalla contrattazione collettiva (orari di lavoro, durata del contratto – anche a termine – licenziamento, patto di non concorrenza, indennità);
- responsabilità civili e penali in esito a illeciti aziendali derivanti dal ruolo ricoperto e dalle funzioni svolte;
- gestione di un trasferimento o cambiamento di mansione.
Il carattere di specialità del rapporto di lavoro dirigenziale e di “debolezza” nella sua tutela, si esprime soprattutto al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
Ma prima di introdurre i criteri che portano alla chiusura del rapporto di lavoro del dirigente, vediamo cosa include il contratto di lavoro dirigenziale.
Contratto di lavoro del dirigente
Qualora un’azienda intenda assumere un dirigente, può decidere di utilizzare un contratto a tempo determinato – di durata non inferiore ai 5 anni – o a tempo indeterminato che, come tale, non ha un termine prefissato.
Il contratto deve includere il dettaglio delle mansioni che il dirigente andrà a svolgere in azienda, così come la durata e, in funzione di essa, il periodo di prova il quale, come stabilito dalla contrattazione collettiva, non deve di regola superare i 6 mesi.
Se quest’ultimo non viene sottoscritto, l’assunzione è da considerarsi sin da subito definitiva.
Inoltre, nell’accordo dirigenziale, oltre all’indispensabile indicazione della retribuzione (fissa e variabile – a obiettivi individuali e aziendali raggiunti), potranno esser previsti eventuali benefit aziendali e anche clausole particolari quali, il patto di non concorrenza, l’accordo di riservatezza, il patto di stabilità, di cui parleremo nei prossimi contributi.
Nel contratto di lavoro, dunque, il datore ed il dirigente potranno disciplinare tutti gli aspetti del rapporto lavorativo che non siano disciplinati dal relativo CCNL, salvo deroghe più favorevoli per il dirigente, ad esempio anche riguardo al preavviso di recesso, l’indennità supplementare, etc.
L’orario di lavoro, invece, in ragione del ruolo ricoperto e della conseguente autonomia che lo caratterizza, dovrà essere lasciato libero all’autodeterminazione del dirigente, che dunque non potrà essere costretto alle medesime regole a cui sono soggetti gli altri lavoratori subordinati, senza diritto allo straordinario.
Criteri di cessazione del rapporto di lavoro del dirigente
Come menzionato, la disciplina adottabile in caso di recesso del rapporto di lavoro dirigenziale è differente rispetto agli altri lavoratori subordinati, assumendo un minor livello di tutela proprio in virtù dell’intenso vincolo fiduciario del rapporto, fatto che si ripercuote anche sul licenziamento.
Infatti, il rapporto di fiducia tra dirigente e datore di lavoro può venir meno anche in caso di azioni e condotte illecite di lieve entità che, se fossero compiute da operai, impiegati o quadri, di fatto non porterebbero al licenziamento.
Il licenziamento di questi ultimi, è ritenuto legittimo se avviene per giusta causa o giustificato motivo, invece nel rapporto di lavoro dirigenziale, proprio in virtù del vincolo di fiducia e del relativo carattere di specialità, si applica il principio di libera recedibilità.
La normativa (artt. 2118 e 2119 c.c.) che si applica al dirigente in questi casi, consente il recesso senza dare una specifica motivazione.
Quindi le parti possono cessare il rapporto di lavoro, con contratto a tempo indeterminato, rispettando comunque il termine di preavviso, oppure per giusta causa senza applicare il preavviso, qualora il motivo del recesso non «consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto» (art.2119 c.c.).
Ma al fine di arginare il potere di recesso del datore di lavoro e l’uso arbitrario di licenziamento del dirigente, la contrattazione collettiva ha posto dei limiti alla libera recedibilità tramite il principio di giustificatezza.
Applicazione del principio di giustificatezza
Si tratta di un principio autonomo rispetto ai motivi tipici del licenziamento – giusta causa e giustificato motivo – applicabile per garantire la legittimità del licenziamento del dirigente.
La giustificatezza consente al datore di lavoro di prendere una decisione che non sia arbitraria, ma sia di fatto coerente e rilevante in diritto, al fine di individuare le ragioni valide che abbiano leso il vincolo fiduciario.
Le cause a giustificazione del licenziamento possono essere imputate a motivi disciplinari, anche di lieve entità, come:
- una condotta inadeguata del dirigente rispetto all’indirizzo aziendale e alle aspettative del datore di lavoro;
- attività operative che vanno in una direzione diversa da quella definita nel piano aziendale;
- una condotta illecita del dirigente che possa ledere l’immagine e la reputazione aziendale.
Oppure possono essere attribuite a motivi oggettivi come una necessaria riorganizzazione aziendale.
In qualsiasi caso i parametri a cui far fede per ottenere una coerente e valida valutazione se un licenziamento dirigenziale sia legittimo o meno, sono la correttezza e la buona fede.
Qualora si riscontri che il licenziamento sia illegittimo, e che non ci siano le basi per recuperare un rapporto di fiducia – tra datore di lavoro e dirigente – che oramai sia stato leso in modo irreparabile, il dirigente può ottenere un risarcimento.
Non è dunque applicabile al licenziamento del dirigente l’istituto della reintegrazione sul posto di lavoro, essendovi solo una tutela risarcitoria, economica.
I contratti collettivi dei dirigenti definiscono le indennità risarcitorie per i recessi illegittimi, commisurate all’anzianità lavorativa del dirigente.
Sempre i CCNL dispongono di importanti periodi di preavviso, sempre rapportati all’anzianità del lavoratore, e conseguenti indennità sostitutive da riconoscere al dirigente in caso di cessazione del rapporto.
I prossimi passi
Da questa breve panoramica introduttiva della figura dirigenziale, si evince l’esigenza di ampliare la normativa che valorizzi e tuteli il rapporto di lavoro del dirigente, anche in funzione della peculiare collaborazione di fiducia con il datore di lavoro.
Nei prossimi contributi approfondiremo, sul medesimo tema, alcune clausole che possono prevedersi nel contratto dirigenziale, tra cui: il patto di stabilità, il patto di non concorrenza e le clausole accessorie del contratto di dirigente.
Nel frattempo, se sei un dirigente o un’azienda e hai necessità di una consulenza legale, non esitare contatta il nostro Studio.