Accade, purtroppo sempre più di sovente nell’ultimo periodo, di vantare crediti commerciali per i quali non vi sia effettiva possibilità di incasso.
In tal caso la legge (art. 26 D.P.R. 633/72) consente il recupero dell’iva, con emissione di una nota di variazione, qualora:
1) venga svolta una procedura esecutiva “infruttuosa”;
2) sussista una procedura concorsuale a carico del debitore;
3) le parti sottoscrivano un accordo transattivo con cui definiscano in tutto o in parte il contratto per cui è credito o rettifichino inesattezze della fatturazione.
La superiore norma va letta assieme all’art. 101, comma 5, del TUIR (“Testo unico delle imposte sui redditi”, per come riformato dal D.L. 83/2012), che prevede altre ipotesi, non ben definite, secondo cui le perdite sono deducibili se risultano da “elementi certi e precisi”.
Secondo la disposizione in commento, tali requisiti sussistono, in ogni caso, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali e, in via automatica, se vi sono perdite su crediti di modesta entità (che per le grandi imprese – con fatturato annuo superiore ai 150 mil. di Euro – sono i crediti non superiori a 5.000 Euro, e per le piccole e medie imprese – con fatturato inferiore alla soglia di cui sopra – crediti non superiori a 2.500 Euro), a condizione che siano scaduti da oltre 6 mesi. Ciò avviene tramite una svalutazione unilaterale effettuata dal creditore, senza necessità, dunque, di attivare alcuna procedura giudiziaria.
La norma prevede altresì che sussistano gli elementi certi e precisi in caso di avvenuta prescrizione del credito, secondo i termini e le modalità disposte dal codice civile (art. 2934 e ss.).
Da ultimo è prevista altresì la deducibilità fiscale delle perdite su crediti esteri, occorrendo tuttavia verificare che la procedura del paese estero sia, in linea generale, assimilabile a quella italiana, e che dunque preveda l’accertamento della situazione di insolvenza da parte di un giudice o di un’autorità amministrativa.
Tornando all’esame delle sopra elencate fattispecie, si precisa che:
1) per esecuzione infruttuosa deve intendersi:
– un pignoramento mobiliare in cui l’ufficiale giudiziario non abbia rinvenuto beni utilmente pignorabili; mentre non sarà a tal fine sufficiente un pignoramento negativo per aver trovato chiuso;
– un’esecuzione con beni in tutto o in parte invenduti, il cui ricavo, pur se parziale, non abbia soddisfatto completamente il creditore.
2) le procedure concorsuali previste dalla norma in esame sono quelle di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria (se preceduta da dichiarazione di insolvenza) e di accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 L.F. (aggiunti dal D.L. 83/12), nelle quali il creditore dovrà partecipare/insinuarsi.
Non sono invece contemplati i piani attestati di risanamento.
3) l’accordo transattivo non deve essere previsto quale ipotesi nel contratto originario e deve pertanto essere sopravvenuto, ma sottoscritto e registrato entro l’anno dalla data dell’operazione per cui è credito. Con l’accordo le parti dovranno risolvere, in tutto o in parte, il rapporto, riducendo o eliminando l’ammontare imponibile, anche per aver rilevato errori o inesattezze nella fatturazione.
Quando è possibile emettere la nota di variazione iva.
Il momento in cui è possibile emettere la nota di variazione differisce a seconda dei casi:
– per l’esecuzione, a seguito del rilascio del verbale negativo di pignoramento o dal mancato soddisfo in sede di distribuzione del ricavato e, comunque, con l’estinzione della procedura qualora il bene non sia stato venduto;
– per il fallimento, dopo 10 giorni dal deposito in cancelleria del piano di riparto esecutivo o 15 giorni dal decreto di chiusura della procedura (si precisa che in caso di chiusura per mancanza di attivo, potrà beneficiarvi anche il creditore che non abbia depositato il ricorso per l’ammissione al passivo);
– per la liquidazione coatta amministrativa, decorsi 20 giorni dalla pubblicazione in gazzetta ufficiale dell’avvenuto deposito del piano di riparto;
– per il concordato fallimentare o preventivo, dopo 15 giorni dall’affissione della sentenza di omologazione del concordato. Da precisare che, nel concordato preventivo, l’infruttuosità sussiste solo per i creditori chirografari, per la parte percentuale del credito che non viene soddisfatta alla chiusura del concordato; la nota di variazione, di conseguenza, verrà emessa solo su tale parte.
I limiti della legge vigente
Dalla ferrea applicazione della normativa in esame, per come interpretata dall’Agenzia delle Entrate e dall’Amministrazione finanziaria, emerge che l’imprenditore sarebbe costretto ad attivarsi con il recupero del credito in via giudiziaria, sino all’esecuzione forzata o comunque a partecipare ad una procedura concorsuale.
Ciò determina un aggravio di costi e di spese legali, finalizzati solo ad arrivare ad un pignoramento infruttuoso o all’apertura di una procedura concorsuale, sempreché sia possibile. Vi sono infatti casi in cui il debitore non è assoggettabile a fallimento o altra procedura contemplata dalla legge, perché ad esempio è un piccolo imprenditore. E non sempre i pignoramenti richiesti portano ad un verbale negativo, visto che il debitore suole rendersi irreperibile, soprattutto quando è una persona fisica, costringendo il creditore a proseguire in attività già votate all’insucesso e dunque altrimenti evitabili.
Nemmeno la legge, inopinatamente, consente di recuperare l’iva avanti ad una sentenza di rigetto dell’istanza di fallimento perché il debitore è soggetto non fallibile, né in caso di irreperibilità del debitore, ancorché certificata.
La giurisprudenza delle Commissioni Tributarie tenta quindi di offrire un’interpretazione meno rigorosa di quella ministeriale, interpretando la dizione “elementi certi e precisi” dell’art. 101 del TUIR. E dunque si ritiene inesigibile un credito qualora è sconsigliata l’azione perché i costi per il recupero vengano dai legali ritenuti superiori al recupero fiscale, considerata le evidenti difficoltà di recupero a fronte dell’illiquidità finanziaria e l’incapienza patrimoniale del debitore (ad esempio, per i rilevanti protesti del debitore, per l’irreperibilità dello stesso e per l’assenza di beni aggredibili).
In tali casi il contribuente dovrà, all’uopo, essere in grado di dimostrare la sussistenza degli “elementi certi e precisi” di cui alla norma in esame.
I possibili sviluppi positivi
La Corte di Giustizia UE è stata di recente investita della questione, a seguito di rinvio pregiudiziale da parte della Commissione Tributaria Regionale di Milano (con ordinanza del 3 marzo 2015, n. 259) in un contenzioso tra l’AdE e una contribuente – società fornitrice di servizi di telefonia – in ordine alla deducibilità fiscale di fatture periodicamente emesse in via posticipata in un contratto di somministrazione, di cui – riassumendo – era in contestazione la sussistenza dei presupposti di effettiva risoluzione contrattuale, per mancanza della restituzione della prestazione erogata.
La società invocava la diretta applicazione di norme comunitarie (artt. 90 e 185 Dir. 2006/112), sostenendo non fossero correttamente recepite dall’art. 26, comma secondo, D.P.R. 633/72, che, imponendo eccessivi limiti (tra cui l’obbligo di ricorrere ad esecuzioni forzate), non prevede la possibilità di dedurre fiscalmente crediti il cui recupero sia palesemente diseconomico. E dunque, il nostro legislatore, eccedendo alla possibilità di deroga prevista dalla direttiva, ha pregiudicato i suoi principi ed il suo contenuto positivo, per aver imposto limiti che rendono impossibile o eccessivamente oneroso per il soggetto passivo il recupero dell’imposta relativa alla controprestazione non pagata in tutto o in parte.
Ci si auspica che la decisione al vaglio della Corte di Giustizia possa dettare un’interpretazione più favorevole per il contribuente, ad oggi obbligato a investire altro denaro all’esclusivo fine di ottenere il recupero dell’iva.