Il già corposo elenco dei reati presupposto della L. 231/01 si arricchisce (o appesantisce) di una nuova fattispecie: l’autoriciclaggio (introdotto con la L. 186/14 in vigore dal 1°gennaio 2015).
Il delitto di autoriciclaggio punisce il comportamento di chi, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza (art. 648 ter 1 c.p.). La condotta deve essere tale da ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa di denaro, dei beni o dell’utilità.
Si intuiscono gli effetti perversi di una tale previsione.
Di immediata evidenza il fatto che reinvestire in beni o usi personali piuttosto che attività non imprenditoriali, non costituirebbe reato; così come l’impiego, trasparente e tracciabile dei proventi di resto non darebbe vita ad autoriciclaggio?
Come dire che l’edonismo è premiato rispetto all’imprenditoria. E che il trasparente rimpiego è meglio se è furbo.
Ve ne sarebbero molti di effetti perversi (anche di interesse socio-economico: tra gli altri, la nuova norma induce a mantenere nell’economia sommersa il denaro proveniente dal delitto), ma per concentrarsi su quelli in ambito 231, tra tutti ritengo non solo suggestivo ricordare quello ad effetto moltiplicatore. Posto che l’autore del delitto incorre nella fattispecie in racconto se impiega il denaro in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali, se tale primo impiego genera proventi (plusvalenze), che vengono altrettanto ri-impiegate, il loro riutilizzo darà luogo ad una nuova ipotesi di autoriciclaggio (e così via fino a che l’operazione non risulterà in perdita o non interromperà l’attività… imprenditoriale?).
Non è questa la sede per una approfondita analisi del delitto o una virata in ambito sociologico. Piuttosto, dando per noto ed acquisita tra gli operatori di settore il sistema previsto dalla 231, colgo questo spunto di informazione per condividere una riflessione in chiave aziendalistica sull’utilità dell’applicazione di un adeguato modello organizzativo (ex 231). Oggi infatti è ormai sempre più facile dire cosa non è compreso nel novero dei reati presupposti della legge: ciò dovrebbe a indurre ad una sorte di obbligatorietà indiretta o di fatto (per non dire di opportunità) del sistema 231. Ma i costi e l’impatto che ne derivano inducono spesso a conclusioni negative. Non dovrebbe essere così.
La 231 (in una con il DL 81/08) non deve essere vista come un invasivo spettro di nefaste tragedie nei cui confronti bisogna per forza assumere provvedimenti inutili e costosi (: inutili perché “tanto noi siamo bravi anche senza”, costosi perché “tanto già lo facciamo anche senza”), ma come un investimento per risparmiare costi (anche in spese legali e assicurazioni) e per rivedere l’efficienza organizzativa del proprio impianto aziendale.
Vado allora per spunti, lasciando a più approfondite disquisizioni le valutazioni, e lanciando invece qualche suggestione (spero).
Il valore aggiunto di un buon modello organizzativo ex 231:
- offre una maggiore pianificazione e programmazione, organizzazione e gestione, vigilanza e controllo;
- comporta una elevata organizzazione aziendale, favorendo una pianificazione dei costi e una maggiore efficienza;
- permette di prevedere i reati, quindi individuare i rischi specifici e potenziali, adottare soluzioni preventive, ed evitarne la commissione (e in caso ne offre l’esimente).
Le conseguenza di un buon modello organizzativo ex 231:
- rating di legalità;
- minor costi assicurativi maggior spendibilità in banca;
- riconoscimento delle stellette di qualità ed accesso all’elenco delle imprese virtuose (tenuto presso il ministero).
Dalla 231 si inverte l’onere della prova:
- in caso di sinistro o reato è l’impresa a dover dimostrare di avere fatto quanto necessario per evitare la commissione dell’evento e un buon modello organizzativo è già una buona prova e se funziona anche un esimente (!).
Il modello deve essere però effettivo ed efficace:
- se non c’è, o non è applicato, o non funziona (o è copiato) si risponde (o bisogna difendersi) di colpa in organizzazione.
Mi piace concludere condividendo una mia radicata e datata convinzione.
Si è ben consci che, la corretta applicazione delle disposizioni normative in esame comporta un importante peso organizzativo ed economico. Ma da questo sacrificio, per certi versi, rivoluzionario (anche se non è di immediata evidenza), potrebbe conseguire una nuova cultura aziendale e nascere una moderna modalità di fare impresa conforme ai principi dell’etica e della trasparenza. L’azienda che si uniforma al D. Lgs. 231 dotandosi, volontariamente, di efficaci strumenti di prevenzione dei reati, oltre al possibile beneficio dell’esimente, acquista anche una patente di “impresa doc“, un nuovo “marchio di qualità“, capace di dare una peculiare connotazione all’impresa, fino a favorirla nel confronto con la concorrenza sul mercato, specie internazionale ed oggi globale.
Forse ora non è più un approccio rivoluzionario, ma siamo ancora in tempo per fare la nostra rivoluzione.