Le aspettative, per definizione, hanno una qualifica soggettiva. Nella prassi legale queste si riverberano sulla domanda di giustizia. Il diritto dovrebbe rispondere alle attese con una certa oggettività e soddisfarle o, in caso contrario, giustificarne la resa.
E’ così laddove il diritto o, più semplicemente, la norma, è riconosciuta e rispettata. E forse anche i suoi operatori.
Viceversa, come interpreti quotidiani (più o meno sofisticati), ci si imbatte troppo spesso in un contrasto tra diritto e pretese. A farne le spese, ad uscire battuto da questo scontro tra legittime aspettative e mancanza di risposte, è il diritto, che sempre più frequentemente non riesce a fornire una risposta adeguata. Il diritto o la sua applicazione.
Devo dire che nella prassi aziendale, che più caratterizza la mia attività, anche l’imprenditore ne esce battuto, perché le sue esigenze di tempo ed efficienza nel fare impresa sono frustrate dalle contraddizioni accennate. Ma resiste eroicamente alla ricerca di una soluzione. Soluzione che non può (più e sempre) essere demandata al Giudice terzo e sovrano.
Si impone dunque di trovare o proporre, comunque cercare, una soluzione a questo dilemma. Spero di non andare a calpestare, con fare maldestro, territori impervi del sapere o imbattermi in percorsi accademici non di mia competenza. Propongo di seguito solo un pensiero di esperienza che, anticipo, mi porterà a concludere che oggi, il diritto di impresa è forse l’unica area in cui si può trovare quella certezza necessaria a rilanciare il valore della norma a protezione di un agire nobile. Ciò almeno fin che si rimane in quell’ambito di autodisciplina contrattualistica che un fine corretto e consapevole può garantire.
A cosa serve il diritto
Partiamo da un assunto condiviso: il diritto dovrebbe servire a disciplinare comportamenti e a risolvere conflitti.
Ma il diritto è in crisi e la legge fatica ad essere rispettata. I giudici sono lontani e spesso malvisti. Gli interpreti e gli utenti rimangano orfani o privi di risposta.
Vincenzo di Cataldo in una intervista rilasciata attorno al suo magnifico libro “A cosa serve il diritto” (il Mulino – 2017), ci insegna che :
“la ragione fondamentale della crisi della giustizia sta nel fatto che la decisione del giudice è molto spesso subottimale, quindi per le parti, di solito, trovare un accordo conviene più che lasciare al giudice la decisione della vertenza”.
In realtà ciò trova conferma e ragione negli studi di economia del diritto, già attivi negli anni ’90 nelle facoltà americane (cfr “Il mercato delle regole” – Il Mulino, 2002). Questa branchia della scienza giuridica, induce a ripensare al valore economico di una sentenza (sgretolandolo) o a sindacare l’utilità (marginale) di una norma (mal) applicata.
La soluzione va rivista passando per altro ragionamento, più attuale e pratico.
Forse possiamo riscontrare una prima ragione della crisi del sistema giustizia (inteso nel suo senso più complessivo), nel crollo dello schema logico-giuridico classico, attraverso il quale si sussume(va) il caso specifico alla norma generale, fornendo così ad ogni fattispecie una risposta di legge. Laddove le parti o i professionisti chiamati a spiegare la soluzione, non ne trovavano una autonomamente, bussavano alla porta (allora sempre aperta) del tribunale, ed il giudice interveniva a porre fine alla lite con una decisione. Anch’egli procedeva con lo stesso schema (logico-giuridico). Un incedere con metodi condivisi, che traeva i punti cardinali nelle fonti del diritto: stelle polari dell’interpretazione e applicazione della legge, fino ad oggi (anzi ieri). In ogni caso, tutti gli operatori erano accumunati dalla stesa formazione, e la babele delle pretese trovava un’unica traduzione nei principi generali accettati.
Oggi però il sistema risulta inadeguato.
Ma non si tratta di un diritto malato, o semplicemente di un sistema giudiziario inadatto. E’ più probabilmente un cambio di epoca non ancor percepito nella sua realtà, di cui si soffrono ancora gli effetti degli ultimi sussulti della vita precedente. E’ il tramonto del monopolio statale della produzione del diritto, che corrisponde all’alba del diritto post moderno: si inciampa ancora nelle orme lasciate dalle figure della notte dei tempi, residui di secoli di storia, perchè siamo ora abbagliati dalla luce dell’epoca postmoderna, che già ci ha raggiunto, senza che si abbiano adeguati strumenti di protezione.
Soccorre in tal senso a rendere più lucida la mia sintesi il Prof. Pascuzzi.
Negli ultimi decenni si sono moltiplicati i soggetti legittimati a porre norme legislative o di efficacia equivalente. Dalle Regioni, sul piano interno, alle fonti comunitarie, su quello internazionale. Esistono processi normativi del tutto decentrati rispetto alla fonte principale (o ritenuta principale fino ad oggi). Alcuni autori, già da qualche anno, parlano di globalizzazione del diritto (Galgano 2005). Si profila ormai da anni un diritto post moderno. Probabilmente la legge tradizionalmente intesa non è più né da un punto di vista quantitativo, né qualitativo, la principale fonte del diritto. Le aree nelle quali maggiormente visibile è l’emersione di questo pluralismo giuridico sono quelle del diritto commerciale (lex mercatoria), delle imprese (multinazionali), dei diritti umani, del diritto del lavoro. L’effetto di tale fenomeno non è la creazione di un corpus unico di regole, ma la nascita e lo sviluppo di diversi ordinamenti, indipendenti da quelli statali, variamente intrecciati tra loro, che regolano differenti settori della vita sociale a livello trasnazionale. Per descrivere la realtà giuridica è sempre più riduttivo attingere al sistema monistico di matrice giuspositivista (tutte le norme sono produzione diretta o delegata dallo Stato), ma si deve far ricorso ad un modello pluralistico, che ammetta la convivenza, su un piano di parità di sistemi giuridici separati (G. Pascuzzi 2107)
In questo contesto di proliferazione e disordine delle gerarchie, in cui gli stessi naviganti perdono orizzonte ed equilibrio, confondendosi nel loro agire, il diritto – straordinariamente – può riprendersi il suo ruolo risolutore, ponendosi come unico strumento adatto a tutti i meccanismi chiamati a risolvere la controversia, o disciplinare il rapporto. Al suo interprete, ma anche agli utenti finali, verrebbe così offerta un’applicazione della norma che sappia prescindere dall’intervento del giudice, valorizzando percorsi alternativi, atti davvero a comporre le liti, invece di farle decidere da un terzo: mediazione, contrattualistica, regolamentazione interna, codici etici, modelli organizzativi, privacy, compliance, statuti societari e dei lavoratori.
Decidere e recidere
Del resto, il giudizio espresso in una sentenza, de–cide una lite, ma non la risolve; re-cide, appunto, gli intrecci su cui il dialogo si era aggrovigliato, ma non necessariamente pro-pone gli strumenti risolutori, o ne estirpa (definitivamente) le cause. In modo autoritario, il giudice (anche il più illuminato) interviene – a chiamata, postuma – applicando dall’alto (come un diserbante), una norma ormai non più riconosciuta per i motivi accennati, e impone un comportamento, il cui rispetto trova ragione nella paura della sanzione che ne è conseguenza, più che nel valore della norma che ne è causa.
La lex mercotoria, la regolamentazione dei contratti direttamente tra le parti, la normativizzazione interna di un modello di impresa, lo statuto dei lavoratori o quelli societari, o gli arbitrati, ci offrono una nuova frontiera in cui rilanciare il diritto come strumento di regolamentazione preventivo e anche di risoluzione postuma.
Apparirà allora chiaro che, in questo nuovo mo(n)do, trovare un accordo non sarà più un atto di rinuncia (alla causa), o una mediazione compensativa tra i maggiori costi e il minor rischio, secondo un calcolo prospettico di percentuali, ma il percorso giuridico e maturo di una autonoma applicazione delle regole di diritto.
Tento una sintesi
Dal monopolio dello Stato e del Giudice, attraverso la crisi della proliferazione disordinata delle fonti, si profila all’orizzonte una applicazione matura del diritto, non più come norma calata o decisa dall’alto o sussunta dalla fattispecie, ma come strumento di regolazione, o meglio, cornice e contenuto allo stesso tempo a cui riferirsi in via preventiva per disciplinare i rapporti nascenti, o ri-solvere (con sapiente e capace autonomia professionale) i conflitti o meglio i contrasti.
Il modello di impresa può rappresentare un ambito di evoluta applicazione.